IL CAPITALISMO
Abbiamo usato
ripetutamente le parole «capitale», «capitalista»,
«capitalismo». Delle prime due abbiamo dato a suo luogo una
definizione, ma della terza no (o per lo meno non abbastanza precisa).
Nonostante la sua enorme diffusione, e anzi, anche a causa di questa, il termine
è tutt'altro che univoco: può indicare, ad esempio, sia il modo di
produzione prevalente nel mondo moderno (ed è in questo senso che lo
adopriamo più frequentemente), sia l'insieme dei capitalisti (ossia dei
detentori di beni capitali) di un certo Paese in opposizione o ai lavoratori
dello stesso Paese o ai capitalisti di altri Paesi (si dice ad esempio: Il
capitalismo italiano ha armato il fascismo contro la classe operaia, il
capitalismo giapponese ha vinto la gara con il capitalismo americano, e simili).
Di solito il capitalismo viene associato alla proprietà privata, ma in
passato si sentì parlare di «capitalismo di Stato» a proposito
di quello che era il regime economico dei Paesi che si dicevano
«socialisti» (in primo luogo l'Unione Sovietica), o a proposito di
quelle imprese (come sono in Italia le aziende del gruppo IRI) di cui lo Stato
era l'unico o il principale proprietario.
Per tentare di circoscrivere il
significato del termine la cosa migliore è, forse, richiamare brevemente
l'analisi che dei meccanismi capitalistici di produzione ha fatto la cosiddetta
scuola «classica» dell'economia, da Smith a Ricardo a Marx. Quella di
Marx, in particolare, è una definizione «storica» del
capitalismo, nel senso che essa stessa, proprio per il suo evidente valore di
contestazione e di rivolta, ha contribuito non poco a fare del capitalismo
quello che è; una definizione che si può non condividere (alcuni
presupposti teorici della scuola classica, come la teoria del valore-lavoro,
sono rifiutati da altre correnti di pensiero) ma che non si può ignorare,
giacché costituisce per tutti un punto di riferimento obbligato.
Nel
sistema capitalistico avvengono continuamente scambi di merci; più
esattamente i compratori scambiano denaro con merce e i venditori scambiano
merce con denaro. Come sappiamo, la regola generale secondo la quale avvengono
tutti gli scambi è che ciò che si dà abbia il medesimo
valore di ciò che si riceve. Se la storia finisse qui non si spiegherebbe
come alcuni membri della società possano arricchirsi (e accumulare
capitali) comprando o vendendo merci, dal momento che il valore delle merci
scambiate è sempre lo stesso. Che nella società feudale i potenti,
laici o ecclesiastici, abbiano accumulato enormi ricchezze non stupisce: in
quella società la coercizione era la regola e il lavoro dei contadini
servi era estorto dai loro signori a fil di spada.
Ma in un'economia dove
ognuno è libero di lavorare oppure no, di vendere e comprare oppure no, e
dove ognuno paga il «giusto» prezzo per le merci che compra e riceve
il «giusto» prezzo per le merci che vende, l'accumulazione di
ricchezza parrebbe un evento fuori della norma. E invece è l'essenza
stessa del capitalismo.
Per produrre una merce bisogna combinare insieme i
relativi fattori di produzione, e questo è appunto il compito
dell'impresa produttrice e dell'imprenditore che la gestisce. Occorre insomma
procurarsi le materie prime della qualità e nella quantità
opportune, gli attrezzi e le macchine che servono a trasformare le materie
prime, i locali per ospitare le macchine, ecc. Poiché le macchine non
lavorano da sole, occorrono anche gli operai che le facciano funzionare.
Macchine, locali, materie prime e i soldi necessari per pagare gli operai sono
capitali. La parola «capitale» viene adoperata in una quantità
di significati diversi, qui però la adopereremo esclusivamente per
indicare qualsiasi merce che può servire a produrre altre merci.
Capitalista sarà dunque chi ha la disponibilità di queste merci
che sono strumenti di produzione.
Macchine, locali, materie prime sono
merci, che il capitalista può acquistare sul mercato. Anche il lavoro
degli operai è una merce e infatti il capitalista lo acquista pagando
agli operai un salario. Attenzione però: il capitalista non compra gli
operai, compra la loro forza lavoro, la loro capacità di produrre.
Acquista, cioè, il diritto di usare questa loro capacità per
periodi di tempo determinanti e in condizioni stabilite per contratto.
Le
materie prime acquistate dal capitalista si consumano interamente nella
produzione: quando il prodotto è finito, le materie prime con cui
è stato fabbricato non ci sono più. Tutto il loro valore si
è trasferito nel prodotto finito. Anche le macchine si logorano con l'uso
e a un certo punto vanno sostituite: ma il loro valore non è andato
perduto, perché anch'esso si è trasferito (come è accaduto
per le materie prime) nelle merci via via prodotte. Fin qui il valore delle
merci prodotte è esattamente uguale al valore delle merci impiegate per
produrle, cosicché alla fine sembra che il capitalista non riesca a
realizzare neppure una lira in più del capitale impiegato nella
produzione. Noi sappiamo, però, che l'imprenditore capitalista realizza
alla fine un valore superiore a quello investito e che senza la speranza di
questo guadagno non avrebbe neppure tentato di organizzare la produzione di
merci.
Tra le merci impiegate dal capitalista nella produzione c'è
una merce un po' particolare: la forza lavoro. Il valore della forza lavoro
è determinato (come per tutte le altre merci) dalla quantità di
lavoro necessaria in media per produrla. Il valore della forza lavoro
sarà dunque determinato dalla quantità di lavoro necessaria a
produrre i cibi, gli abiti e in genere tutti i beni e i servizi indispensabili
alla sopravvivenza degli operai e delle loro famiglie. I beni corrispondenti a
queste esigenze non costituiscono una quantità fissa, ma cambiano di
tempo in tempo e di luogo in luogo; in una data situazione storica e sociale,
tuttavia, essi possono essere almeno approssimativamente determinati.
La
particolarità della forza lavoro come merce sta in questo, che il valore
dei beni e dei servizi necessari all'operaio e alla sua famiglia per
sopravvivere e riprodursi è sempre inferiore al valore delle merci che
l'operaio è in grado di produrre. In altre parole, le ore di lavoro
necessarie a produrre ciò che l'operaio consuma per vivere sono meno di
quelle che l'operaio può lavorare. Lavora, per esempio, dieci ore, ma per
produrre quello che consuma ne occorrono soltanto sei. Il salario, che è
il prezzo pagato dal capitalista per disporre della sua forza lavoro,
corrisponde a queste sei ore, mentre il valore che l'operaio produce è di
dieci ore. Le quattro ore di differenza rappresentano un sovrappiù, un
plusvalore, di cui il capitalista si appropria. Se ne appropria legittimamente,
senza truffare o derubare nessuno: ha acquistato la forza lavoro al suo valore,
l'ha usata (come era suo diritto) appropriandosi dell'intero prodotto, vende il
prodotto di cui si è appropriato al suo giusto valore (cioè in
base al numero delle ore necessarie in media per produrlo). Anche se lui non ha
lavorato neppure un'ora, ha realizzato un guadagno, che deve essere considerato
un guadagno legittimo (almeno finché sarà legittimo considerare il
lavoro umano alla stregua di una merce).
PROFITTO E SAGGIO DI PROFITTO
In genere, se l'industriale capitalista non
ha commesso errori, il ricavato della vendita delle merci da lui prodotte
è superiore alla spesa affrontata per acquistare i necessari fattori di
produzione. Questa eccedenza costituisce il «profitto» del
capitalista. Cerchiamo di spiegarci come si forma il profitto (senza mai
abbandonare, naturalmente, il presupposto che ogni merce sia acquistata e
venduta al suo giusto valore) e cerchiamo di capire come si determina il valore
finale delle merci prodotte.
Come tutti sanno, se una macchina dura dieci
anni e costa dieci milioni, ogni anno perde un decimo del suo valore, ossia un
milione. Di questa perdita di valore delle macchine, che si chiama
«ammortamento», si deve tener conto nel determinare il valore del
prodotto finito. Si deve inoltre tener conto delle materie prime, dei
combustibili, dell'energia elettrica che sono stati consumati nella produzione.
Se a questi costi si aggiunge il valore prodotto dal lavoro degli operai,
otteniamo il valore del prodotto finito. Possiamo indicare tutto ciò con
una formula:
A + MP + VA = PF
dove A indica il valore
dell'ammortamento, MP quello delle materie prime, dei combustibili, ecc.
consumati nella produzione, VA il valore aggiunto dal lavoro degli operai e PF
il valore del prodotto finito. Il valore delle merci indicate con A e MP si
trasferisce tale e quale nel valore del prodotto finito, e qui il capitalista
non guadagna niente. Se un profitto viene alla fine realizzato, la sua fonte non
può che stare nel valore aggiunto dal lavoro degli operai (VA). E
poiché il lavoro degli operai ha rappresentato per l'imprenditore
capitalista un costo (in quanto ha dovuto pagare agli operai un salario), se
c'è un profitto vuol dire che il valore aggiunto dal lavoro è
maggiore del costo del lavoro stesso. La differenza tra valore aggiunto e costo
del lavoro, è ciò che si chiama plusvalore, ed è appunto la
fonte del profitto del capitalista. La formula di sopra, allora, può
essere così trasformata:
A + MP + (L + PV) =
PF
dove L è il valore della forza lavoro impiegata (o il
salario che ad esso corrisponde) e PV è il plusvalore incamerato dal
capitalista.
Abbiamo detto che il plusvalore è la fonte del profitto
capitalistico. Con ciò abbiamo voluto dire che, a rigore, plusvalore e
profitto non sempre coincidono esattamente. L'imprenditore capitalista, infatti,
può essere interessato o costretto a dividere con altri il plusvalore che
è in grado di realizzare, per esempio facendosi imprestare denari dalla
banca e pagandole i relativi interessi, oppure versando tangenti a partiti
politici o ad organizzazioni mafiose: è evidente che, in casi come
questi, il profitto è dato dal plusvalore meno gli interessi e le
tangenti. Per semplicità, tuttavia, considereremo le due espressioni,
«profitto» e «plusvalore», come praticamente
equivalenti.
L'imprenditore capitalista nel prendere tutte le decisioni
relative all'investimento dei suoi capitali fa anche un altro calcolo. Determina
cioè il rapporto tra il plusvalore ottenuto e la somma delle spese
sostenute per salari, materie prime e ammortamenti, ossia la spesa totale di
capitale:

Questo rapporto si chiama
saggio di profitto. Se, per esempio, alla fine di un ciclo produttivo il
plusvalore risulta di 300 milioni e la somma delle spese di 2 miliardi, il
saggio di profitto sarà:

In questo
caso, dunque, il saggio di profitto è del 15 per cento. Al capitalista,
il cui interesse è di far fruttare al massimo i suoi capitali, non
importa tanto l'entità del plusvalore ricavato, quanto il saggio di
profitto, e tenderà a spostare i suoi capitali dai settori di produzione
nei quali i saggi di profitto sono bassi verso quelli in cui i saggi di profitto
sono elevati.
VALORE AGGIUNTO
In senso generale il valore aggiunto
è quel nuovo valore che viene creato nella produzione di beni o servizi.
Ci sono imprese che producono beni intermedi (per esempio filati di lana) e
altre che producono beni finali (per esempio tessuti di lana). Il valore di una
stoffa è superiore a quella dei filati che sono serviti per fabbricarla e
lo stesso vale per i filati rispetto alla lana grezza. La differenza tra i due
valori rappresenta il nuovo valore che l'impresa produttrice ha
«aggiunto» al valore iniziale. Il valore aggiunto si può
misurare sottraendo dai ricavi di una impresa il costo dei materiali che essa ha
impiegato nella produzione. Questa differenza, d'altra parte è uguale
alla somma dei salari, degli stipendi, degli interessi, ecc. che l'impresa ha
pagato e dei profitti che ha realizzato nella produzione.
CAPITALISTI E PROLETARI
Una delle caratteristiche fondamentali del
modo di produzione capitalistico è la separazione dei produttori dai loro
mezzi di produzione, il che vuol dire che mentre una massa crescente di
produttori (ossia di lavoratori manuali) perde il controllo dei mezzi di
produzione (ossia dei beni capitali indispensabili alla produzione: strumenti di
lavoro, materia prime, ecc.), questi stessi mezzi di produzione si concentrano
nelle mani di un numero relativamente ristretto di imprenditori e fabbricanti. I
detentori dei mezzi di produzione, ossia dei capitali, sono detti, appunto,
«capitalisti» mentre i produttori privi di mezzi di produzione sono
detti «proletari».
Presso gli antichi Romani
«proletari» erano i cittadini non abbienti, quelli cioè che
(come dice la parola stessa) non avevano altri beni oltre ai propri figli (la
prole). L'elemento fondamentale della condizione di proletario era dunque la
povertà. Il significato moderno della parola è cambiato
sensibilmente. Il proletario moderno è spesso anche povero, ed anzi,
soprattutto agli inizi dell'industrializzazione, la sua povertà era
disperata, senza conforto, assai peggiore di quella dell'antico proletario
romano, ai cui bisogni essenziali lo Stato o i ricchi privati provvedevano in
qualche modo. Ma il proletario moderno non è semplicemente un
povero.
Il povero è un diseredato, privo di beni di fortuna e di
mezzi di sostentamento. Il proletario è un lavoratore che non ha
disponibilità di quei particolari beni che sono i mezzi di produzione, a
cominciare dai suoi stessi strumenti di lavoro: il contadino non ha la terra, il
tessitore non ha il telaio, e così via. Poiché non ha altra
risorsa produttiva all'infuori delle proprie braccia, il proletario, in quanto
produttore, può soltanto cedere l'uso della propria forza lavoro a chi
detiene i mezzi di produzione, ossia a un imprenditore capitalista, e riceverne
in cambio un salario. In quanto semplice povero, invece, avrebbe una
quantità di alternative: potrebbe chiedere l'elemosina, per esempio, o
andare a rubare. Così però rientrerebbe nelle fila del cosiddetto
«sottoproletariato», che è il ceto di quanti, ai margini della
società, vivono di espedienti o di attività illecite. Naturalmente
un'infinità di persone sono passate (e continuano a passare) dalla
condizione di proletario a quella di sottoproletario o viceversa, e
tradizionalmente le classi lavoratrici (contadini, operai) sono state assimilate
alle classi socialmente pericolose proprio per questa loro contiguità con
la malavita e con gli ambienti degli emarginati: si trattava (e si tratta)
tuttavia di due condizioni sociali radicalmente diverse.
Il proletario
moderno non ha nessun mezzo di produzione, nessun vincolo, nessun obbligo e
nessun diritto; non avendo altre fonti di sostentamento, è costretto a
vendere la propria forza lavoro in cambio del salario, ma è libero di
venderla nel senso che nessuna legge lo obbliga a farlo e può venderla a
chi gli offre il salario migliore, magari andandosene per il mondo alla ricerca
di un padrone disposto a comperarla. Proprio questo, anzi, è uno dei
fenomeni caratteristici dell'epoca del capitalismo: lo spostamento di centinaia
di migliaia o addirittura di milioni di uomini da un Paese all'altro, e spesso
da un continente all'altro, alla ricerca di un lavoro. La vita del proletario
dipende dall'esistenza di un imprenditore capitalista (il cosiddetto
«datore di lavoro») disposto a comprare la sua forza lavoro. Se ha la
fortuna di trovarlo, il proletario deve assoggettarsi alle regole che il datore
di lavoro impone: ritmi, orari, perfino i gesti che deve compiere sono decisi da
altri.
A questo punto non è difficile capire in che cosa consista la
differenza tra il proletariato moderno e le classi lavoratrici che hanno
caratterizzato le epoche precedenti a quella del capitalismo industriale.
L'artigiano o il contadino tradizionali potevano essere poveri quanto e
più del proletario moderno, ma non erano proletari, perché
possedevano, oltre alle proprie braccia, anche qualche modesto mezzo di
produzione (un pezzo di terra, una bottega, qualche attrezzo). Il servo della
gleba viveva miseramente, ma non era un proletario, perché era legato a
una terra che non poteva abbandonare, ma che nessuno gli poteva togliere; per di
più non era affatto libero di vendere la sua forza lavoro perché
dipendeva da un signore a cui doveva dei servizi e da cui si aspettava
protezione. Lo schiavo era in una condizione meno che umana, in quanto era
considerato un semplice oggetto di proprietà del padrone. Ma proprio per
questo il padrone si preoccupava di conservarlo in vita e quindi di nutrirlo e
di fornirgli un alloggio per quanto miserabile.
Salariati e proletari
esistevano anche prima della Rivoluzione industriale: ne abbiamo accennato
più volte e specialmente a proposito della crisi attraversata dalla
società europea tra XIV e XV secolo, quando, nell'incipiente dissoluzione
dei rapporti feudali nelle campagne, si ebbe una prima, consistente formazione
di strati proletari e sottoproletari. Ma se i mendicanti e i vagabondi, a
partire da quell'epoca, si moltiplicarono paurosamente, i proletari
«veri», ossia i lavoratori salariati, erano relativamente poco
numerosi. Solo con l'avvento della società industriale la loro condizione
si è generalizzata, imprimendo una specifica caratterizzazione a tutto
l'insieme dei rapporti sociali.
La meccanizzazione dell'industria e la
produzione su larga scala ebbero come prima conseguenza la concentrazione dei
mezzi di produzione (telai, macchinari, ecc.) nelle mani di un numero
relativamente ristretto di persone.
Per spiegare come ciò sia
avvenuto ricorreremo, al solito, ad un esempio: quello del contadino-tessitore,
un personaggio frequente nelle campagne del Settecento. L'industria tessile
tradizionale si basava sul lavoro a domicilio: i telai erano sparsi nelle case
di campagna e il contadino integrava il lavoro dei campi con la tessitura. Il
telaio era di proprietà del contadino-tessitore, oppure era affidato al
contadino da un mercante, che gli forniva anche la materia prima e che
periodicamente ritirava il prodotto finito. La meccanizzazione dell'industria
tessile cambiò ogni cosa. I nuovi macchinari, costosi e ingombranti,
mossi non più dalla forza delle braccia, ma dall'energia idraulica o dal
vapore non potevano essere ospitati in una casa contadina, ma dovevano essere
concentrati in un edificio apposito, la fabbrica, e non erano alla portata di
tutti, ma solo di quelli che avevano i soldi necessari per acquistarli o per
farli costruire. Il maggior costo non riguardava soltanto telai e impianti
motori, ma anche le maggiori spese necessarie per farli funzionare: una macchina
moderna poteva produrre 50, 100, 200 volte di più di un telaio
tradizionale, e questo comportava per il solo acquisto di materie prime esborsi
50, 100 o 200 volte superiori. Tutto ciò era largamente al di sopra delle
possibilità della grande maggioranza dei vecchi contadini tessitori.
Incapaci di rinnovarsi tecnicamente o di sostenere con i loro telai a mano la
concorrenza delle fabbriche moderne, costoro, che anche come contadini erano
messi in difficoltà dalla concorrenza di aziende agricole più
grandi e più moderne, non avevano di solito altra scelta che quella di
abbandonare la casa, i campi, il vecchio telaio, rinunciare alla propria
condizione di produttori autonomi e offrirsi come manodopera salariata a qualche
industriale.
È questo genere di fenomeni che si indica come
«separazione dei produttori dai loro mezzi di produzione». In
alternativa si adopera un'espressione più dura: «espropriazione dei
produttori». Il termine «espropriazione», s'intende, non va preso
alla lettera. Il fenomeno di cui stiamo parlando non comportava necessariamente
un'azione legale né richiedeva l'intervento della forza pubblica (anche
se in certi casi, come quello della recinzione dei campi aperti e della
privatizzazione delle terre comuni, aveva proprio questo carattere). Il
contadino-tessitore del nostro esempio poteva benissimo, se voleva, tenersi in
casa il suo vecchio telaio; nessun tribunale lo obbligava a disfarsene e nessuno
glielo avrebbe portato via. Il fatto è che, pur conservandolo, non
avrebbe saputo cosa farsene, visto che come mezzo di produzione era ormai
superato dai nuovi macchinari. Anche se era ancora capace di funzionare, il
vecchio telaio non era più uno strumento di lavoro, ma un cimelio, un
pezzo da museo.
CONCORRENZA E MONOPOLIO
Che qualcosa non funzionasse nel sistema
capitalistico si era capito abbastanza presto, in considerazione non tanto del
prezzo assai alto che importanti settori delle classi lavoratrici stavano
pagando per i suoi successi, quanto dell'evidente e imbarazzante presenza di due
fenomeni che sembravano contraddire le speranze dei suoi sostenitori e
apologeti: quello della progressiva scomparsa di un mercato libero per effetto
proprio della concorrenza, e quello delle ricorrenti e tuttora abbastanza
misteriose crisi economiche.
Nel concetto di concorrenza confluiscono due
nozioni diverse. C'è concorrenza quando il mercato è illimitato,
ossia quando è sempre possibile trovare nuovi acquirenti espandendo
l'area geografica del mercato, oppure allargando l'area sociale del consumo (una
consistente diminuzione dei prezzi o un aumento del potere d'acquisto dei salari
può estendere alle classi popolari il consumo di un prodotto prima
riservato ai ricchi). C'è concorrenza anche quanto il mercato è
libero, ossia quando nel mercato compratori e venditori sono molti e tutti sono
liberi di comprare o di vendere, e perciò nessuno è in grado di
imporre la propria volontà agli altri o di escludere dal mercato altri
compratori o altri venditori.
In entrambi i significati la concorrenza
è stata una condizione per il sorgere del sistema capitalistico, che
infatti ha significato conquista di nuovi mercati (qualche volta in termini di
semplice penetrazione economica, qualche altra in termini di vera e propria
occupazione militare), e ha comportato la progressiva eliminazione dei vincoli
che ostacolavano la libera circolazione delle merci e della manodopera
all'interno dei singoli Paesi. La concorrenza si attua essenzialmente per mezzo
del progresso tecnico e scientifico, che permette di produrre a costi minori e
quindi di vendere a prezzi più bassi: chi ha i mezzi di produzione
tecnicamente più avanzati è in grado di eliminare i concorrenti
più arretrati. È quello che hanno fatto i primi capitalisti
industriali nei confronti degli artigiani del proprio Paese o dei Paesi
coloniali. Ma è anche quello che i capitalisti più forti hanno
continuato e continuano a fare nei confronti dei capitalisti più deboli.
Così la concorrenza ha avuto come effetto l'eliminazione di un gran
numero di capitalisti e la concentrazione della produzione in un numero sempre
più limitato di aziende sempre più grandi. La concorrenza,
insomma, ha prodotto alla lunga il suo opposto, il
monopolio.
«Monopolio» deriva da due parole greche, mònos
e polèin che significano rispettivamente «uno solo» e
«vendere»: vuol dire che una sola impresa controlla per intero il
mercato di un determinato prodotto. Se invece di una sola impresa si tratta di
più imprese (piccole o grandi) che si accordano per eliminare qualsiasi
concorrenza tra di loro e per esercitare tutte insieme un controllo
monopolistico su una determinata attività economica, si parla di
«cartello». Gli americani indicano con trust (che in Inghilterra
designa piuttosto le società fiduciare, da to trust = «avere
fiducia») cartelli e monopoli insieme. Una situazione di monopolio puro
è difficile che possa verificarsi. Molto più frequentemente accade
che un numero ristretto di grandi imprese controllino una quota determinante del
mercato: si parla allora propriamente di «oligopolio» (ma nel
linguaggio comune si usa correntemente «monopolio» anche per questa
situazione).
La formazione nel corso dell'Ottocento (e specialmente nella
seconda metà del secolo) di gigantesche imprese che monopolizzando (o
quasi) una determinata attività economica avevano un potere economico e
politico immenso, fissavano ad arbitrio i prezzi dei beni o dei servizi che
controllavano, decidevano della sorte di centinaia di migliaia di persone, e
risultavano spesso più forti degli stessi governi ha fatto sorgere,
soprattutto negli Stati Uniti, terra d'elezione dei primi grandi monopoli,
allarmi e discussioni.
Ci sono stati dei periodi in cui i giornali
americani non parlavano praticamente d'altro. Se questi colossi economici erano
in grado di condizionare a tal punto la vita della gente e la politica degli
Stati, dove andava a finire la democrazia? E soprattutto dove andava a finire la
libertà di mercato, vanto della società capitalistica? Il fenomeno
naturalmente non riguardava solo gli Stati Uniti. Anche in Europa accadevano
più o meno le stesse cose, era in atto, cioè, un continuo processo
di concentrazione dei capitali. Nel nostro secolo, in diversi Paesi
dell'Occidente, a cominciare appunto dagli Stati Uniti, sono state messe in
opera legislazioni anti-trust allo scopo di limitare le pratiche monopolistiche
e di salvaguardare in qualche modo la libertà del mercato (che è
il meccanismo che dovrebbe garantire l'efficienza del sistema
economico).
CRISI CICLICHE E DI OCCUPAZIONE
L'industrializzazione sembrava realizzare
il vecchio sogno di un pieno dominio dell'uomo sulla natura. Lo sviluppo di
rapidi ed economici mezzi di comunicazione, l'intensificarsi del commercio anche
su lunghe distanze, portava ad una sempre maggiore fluidità dei mercati,
che metteva al riparo la popolazione da eventuali crisi nella produzione
alimentare. Quando queste si manifestavano, non assumevano più
proporzioni catastrofiche. Era sempre possibile, infatti, por mano con relativa
facilità alle riserve immagazzinate, evitando vertiginose impennate dei
prezzi e vere e proprie carestie.
Ciò non significa che non ci
fossero periodi di difficoltà più o meno gravi in cui il
meccanismo dello sviluppo sembrava rallentare o incepparsi. Ma per tutta una
lunga fase, sotto l'impressione degli indiscutibili successi realizzati dal
nuovo modo di produzione (soprattutto in relazione alla cresciuta
disponibilità di beni di consumo), le crisi furono avvertite come
incidenti, calamità isolate, dovute a fattori soggettivi, cioè a
imprudenze o a errori momentanei. Pochi sospettavano che il sistema
capitalistico portasse con sé i germi di uno sviluppo tutt'altro che
lineare, di una crescita costellata di contraddizioni, di interruzioni e
inversioni di tendenza che avevano smentito la previsione di una diffusione
progressiva del benessere nel mondo.
Questo modo di considerare le crisi
come perturbazioni solo temporanee dell'economia era influenzato dal fatto che
esse, pur continuando ad essere accompagnate da un diffuso malessere e da
miseria per gli strati sociali più deboli, avevano cambiato natura: non
si manifestavano più come penuria assoluta di beni, ma, anzi, come
eccesso relativo di merci. Per chiarire questo concetto e rendersi conto del
fenomeno che sottintende, è necessario richiamare le osservazioni fin qui
fatte sulla natura del processo capitalistico di accumulazione.
Abbiamo
già visto come il capitalista inizi la sua attività con denaro che
mette in circolazione in cambio di forza lavoro e di mezzi di produzione; al
termine di un ciclo produttivo, riappare sul mercato con merci che egli
trasforma di nuovo in denaro. L'intero processo funziona e ha un senso se vi
è una differenza in più tra capitale realizzato alla fine e
capitale investito all'inizio. Se si verifica una interruzione nel processo di
circolazione del denaro, perché il capitalista non reinveste, ossia non
scambia più il proprio denaro con nuove merci, quali materie prime e
mezzi di produzione, per avviare un altro ciclo produttivo, o perché
semplicemente ha deciso di rinviare questa operazione, la contrazione di
produzione che si verifica nella sua impresa può ripercuotersi
sull'intera economia. Ad esempio se il produttore A non compra merci da B, B,
non essendo riuscito a vendere ad A, non può comprare da C, e C, non
essendo riuscito a vendere a B, non può comprare da D, e così di
seguito. Molte merci di B, C, D, ecc. rimangono invendute nei magazzini, la
produzione si riduce, gli operai restano senza lavoro, il ciclo capitalistico si
interrompe. In sostanza si determina una reazione a catena il cui momento
iniziale è un eccesso di produzione e quello finale una decurtazione
della produzione stessa. E qui ci si pone la domanda: quali sono i motivi che
hanno indotto il primo capitalista a interrompere, o a ridurre, il processo di
circolazione del denaro?
Al riguardo gli economisti hanno formulato
differenti ipotesi che, pur contenendo alcuni elementi di analisi in comune, si
escludono a vicenda, un po' a causa dei contrastanti orientamenti ideologici e
politici, e un po' a causa della reale complessità del sistema economico
affermatosi con la rivoluzione industriale. Se l'individuazione delle cause che
originano le crisi è aperta a diverse interpretazioni, tutti sembrano
d'accordo sul loro carattere ricorrente. Si parla per questo di crisi
«cicliche» e di «cicli economici», sulla cui descrizione non
vi sono sostanziali divergenze tra gli studiosi.
In una fase di crescita
della domanda dei beni di consumo, di rialzo dei prezzi, di abbondanza della
manodopera, quindi di alti profitti, le imprese già presenti sul mercato
sono propense a reinvestire parte dei profitti nell'ammodernamento o
nell'ampliamento del loro apparato produttivo, incrementando così la
domanda di mezzi di produzione (o beni strumentali). Poiché il denaro
è abbondante e l'interesse praticato dalle banche è relativamente
basso, nuovi imprenditori si affacciano sul mercato per avviare nuove produzioni
e perciò incrementano di nuovo la domanda di beni strumentali. Il
fenomeno non dura però indefinitamente. Aumentando la produzione, la
manodopera disponibile tende a ridursi, quella occupata diventa più
esigente (ossia pretende salari più alti e migliori condizioni di lavoro,
aggravando i costi di produzione delle aziende), i tassi di interesse
(cioè il costo del denaro) salgono per l'aumentata domanda di prestiti da
parte degli imprenditori, i profitti finiscono per assottigliarsi.
A questo
punto inizia un'inversione di tendenza, le cui avvisaglie possono essere date da
un improvviso panico in borsa o da un fallimento di qualche grande impresa
industriale o bancaria. Si crea un clima generale in cui gli imprenditori
esitano a investire. Il movimento al ribasso si propaga a partire dalle aziende
più deboli e imprudenti, che sono costrette a ridurre o a interrompere
l'attività, creando disoccupazione. Quest'ultima, che rende possibile una
riduzione dei salari e quindi dei costi di produzione e quindi dei prezzi,
diventa la premessa per un'ulteriore ripresa, favorita dalla selezione che
durante la crisi si è operata tra le imprese, con il fallimento delle
meno efficienti. Se il consumo, sollecitato dalla diminuzione dei prezzi, torna
a crescere, i prezzi saliranno innescando un nuovo meccanismo di espansione. Al
di là delle possibili differenti interpretazioni di questo andamento
ciclico dell'economia, alcuni elementi di valutazione sembrano inconfutabili: 1)
le fluttuazioni cicliche sono una caratteristica difficilmente eliminabile dalle
economie capitalistiche; 2) l'adattamento dell'offerta alla domanda e
dell'apparato produttivo al potere d'acquisto, elemento che sinteticamente
definisce la natura di queste oscillazioni, si realizzano per tentativi che
comportano sempre un elevato costo sociale in termini di
disoccupazione.
LA CADUTA DEL SAGGIO DI PROFITTO
Nel pensiero economico marxista il fenomeno
delle crisi è stato legato al concetto di saggio del profitto e
all'analisi della sua dinamica. Per saggio del profitto si intende il rapporto
tra il plusvalore e la spesa totale di capitale. Per Marx il saggio del profitto
varia in modo direttamente proporzionale al variare del saggio del plusvalore,
ossia di quella quota aggiuntiva di valore che è prodotta dalla
forza-lavoro (il saggio di plusvalore si chiama per questo anche «saggio di
sfruttamento»). In concreto ciò significa che il saggio del profitto
cresce se viene prolungata la giornata lavorativa, o se viene contratto il
salario reale, o, ancora, se aumenta la produttività del lavoro. Ma il
saggio del profitto varia anche, e in questo caso in modo inversamente
proporzionale, in rapporto al variare di quella che (come vedremo) Marx chiama
«composizione organica del capitale», e che in sostanza rappresenta la
proporzione in cui materie prime, strumenti e macchine entrano in combinazione
col lavoro umano. Se cioè aumenta il peso specifico degli impianti
rispetto alla forza-lavoro, il saggio del profitto tende a diminuire. E
ciò è facilmente intuibile se si tiene conto che nel processo
produttivo è il lavoro degli operai che determina un aumento di valore
del capitale investito, mentre materie prime e macchine trasferiscono
semplicemente il loro valore nel prodotto. Ora consideriamo contemporaneamente
le due variabili da cui dipende il saggio del profitto e vediamo quali
variazioni esse subiscono nel tempo. La resistenza della classe operaia tende a
non far aumentare, ossia a mantenere costante il saggio di plusvalore
(cioè gli operai con le loro lotte tendono a impedire riduzioni di
salario e aumenti dell'orario di lavoro, ed anzi riescono spesso a far crescere
l'uno e a far diminuire l'altro). Al contrario il progresso tecnico tende ad
innalzare la composizione organica del capitale, ossia a far crescere il valore
relativo del capitale costante sull'insieme del capitale usato. Ciò che
ne consegue è una tendenza alla caduta del saggio del profitto. Si parla
di tendenza, in primo luogo perché il meccanismo qui esposto rappresenta
un modello astratto. Ad esempio, presuppone una identica proporzione tra
capitale costante e capitale variabile nei vari settori dell'economia, cosa che
non si verifica mai nella realtà. In secondo luogo perché sulla
caduta del saggio di profitto agiscono dei fattori contrastanti, primo fra tutti
l'aumento dell'intensità dello sfruttamento che fa crescere il saggio di
plusvalore. Poniamo però che si verifichi davvero che il saggio del
profitto scenda al di sotto del livello considerato accettabile dagli
imprenditori. In questo caso i capitalisti non sono più spinti a
reinvestire. Rinviano pertanto l'investimento, finché il profitto non sia
tornato a livello normale o finché essi non si siano rassegnati ad un
nuovo e più basso saggio del profitto. Nel frattempo però questo
rinvio avrà interrotto il processo di circolazione del denaro e causato,
come abbiamo già visto, superproduzione e crisi.
Ritratto di Karl Marx
RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E SOTTOSVILUPPO
Le tecniche che hanno caratterizzato gli
inizi dell'industrializzazione in Inghilterra e in altri Paesi dell'Occidente
erano relativamente semplici. Come abbiamo visto, se si esclude il settore
chimico, nel cui sviluppo gli scienziati svolsero sin dal principio un ruolo di
un certo rilievo, le innovazioni più importanti introdotte nell'industria
sino ai primi decenni dell'Ottocento furono opera di tecnici, di artigiani, di
imprenditori, di gente insomma che era direttamente impegnata nella produzione e
ne conosceva a fondo i problemi, ma che di solito aveva un modesto livello di
istruzione e possedeva scarse cognizioni teoriche. Per quanto ingegnose fossero,
le invenzioni di questo primo periodo dell'industrializzazione non costituivano
una rottura decisa con la tecnica tradizionale: un fabbro tradizionale poteva
sempre cimentarsi nel riparare un telaio meccanico o addirittura una macchina a
vapore e un buon artigiano non avrebbe avuto grosse difficoltà ad imitare
e perfino a migliorare utensili e macchine di nuova invenzione. Tutto ciò
spiega in gran parte la relativa facilità con cui nei primi tempi
dell'industrializzazione il progresso tecnico si diffuse da una regione
all'altra e da un settore di attività all'altro.
La situazione
cambiò invece nettamente a partire all'incirca dalla metà
dell'Ottocento e poi soprattutto con l'avvento dell'elettricità e del
motore a scoppio: un fabbro di tipo tradizionale di fronte a un motore a scoppio
o elettrico non avrebbe saputo dove mettere le mani; un impianto chimico non
poteva essere controllato «a occhio», né poteva essere fatto
funzionare sulla base dell'esperienza comune e del buon senso. Quanto al
progresso tecnico, ossia alle invenzioni di nuovi procedimenti produttivi o al
perfezionamento dei vecchi, esso dipese sempre meno dai «pratici» e
sempre più dagli scienziati: tra le invenzioni importanti di questo
periodo ben poche possono essere attribuite a persone che non erano né
ingegneri, né chimici, né ricercatori di professione. La figura
stessa dell'operaio industriale doveva modificarsi in rapporto alla
complessità crescente delle tecniche. L'abilità manuale non
bastava più: l'operaio doveva ormai possedere un certo grado di
istruzione e un certo bagaglio di cognizioni teoriche. Doveva saper leggere e
scrivere, fare le quattro operazioni, conoscere quel tanto di disegno tecnico
che era necessario per interpretare esattamente il progetto di una macchina o di
un pezzo di macchina. L'operaio, insomma, doveva andare a scuola. E infatti ci
andò, con le buone o con le cattive: tutti i Paesi avanzati istituirono
nel corso della seconda meta dell'Ottocento una qualche forma di istruzione
obbligatoria.
I mutamenti avvenuti nelle società industriali
avanzate tra la metà del secolo scorso e lo scoppio della prima guerra
mondiale sono stati così profondi che si parla correntemente di
«seconda rivoluzione industriale». Passando rapidamente in rassegna
alcune tra le principali innovazioni tecniche di questo periodo accenneremo
anche ad alcune macroscopiche conseguenze che esse hanno avuto nella vita di
tutti i giorni. Certi aspetti, però, meritano di essere sottolineati fin
d'ora, anche per correggere l'impressione (del tutto illusoria) di un successo
trionfale della tecnica occidentale, di un progresso indefinito e generale che
sarebbe stato finalmente assicurato all'umanità dal sistema
capitalistico.
Basterebbe ad escludere qualsiasi trionfalismo la
constatazione che questo sistema aveva in sé uno spaventoso potenziale di
violenza, che si è poi scaricato, senza però esaurirsi,
nell'inaudito e quasi inconcepibile massacro delle due guerre mondiali. Ma anche
prima che questo massacro incominciasse, gli indubbi successi della
società industriale (e capitalistica) avevano avuto un costo umano
incalcolabile. I fenomeni di espropriazione e di sradicamento sociale di grandi
masse di contadini e artigiani, che avevano accompagnato le prime fasi
dell'industrializzazione, hanno continuato a prodursi durante la seconda
rivoluzione industriale, ma su scala incomparabilmente più vasta. La
miseria e la degradazione che ne sono derivate, la disoccupazione sempre
presente tra la popolazione operaia e contadina, la migrazione di decine di
milioni di lavoratori da un continente all'altro in cerca di impiego sono stati
fenomeni non meno straordinari delle pur grandiose imprese della tecnica e della
vertiginosa corsa, caratteristica della nostra epoca, all'abbattimento di
qualsiasi primato.
Certo, la società industriale (e capitalistica)
è stata in grado di nutrire una popolazione che, in Europa e in America,
in due secoli, tra il 1750 e il 1950 si è sestuplicata, passando da 150 a
più di 900 milioni di persone; nello stesso tempo gran parte di questa
popolazione è stata liberata definitivamente dalla miseria. Di sicuro
nessuna nostalgia è possibile per le condizioni di vita dell'età
preindustriale, che per le classi popolari erano segnate dalla sporcizia,
dall'ignoranza, dalla violenza, dalla sottoalimentazione, dalla soggezione alla
volontà altrui. Altrettanto sicuramente, però, il sistema
capitalistico si è reso responsabile della disperata miseria di nuove e
più grandi masse di persone, dentro e fuori il mondo industrializzato.
L'espropriazione è l'essenza del sistema capitalistico. In questo quadro
è cresciuto il fenomeno del sottosviluppo, il problema forse più
grave del nostro tempo.
Fino al compiersi di quella che abbiamo chiamato
«la seconda rivoluzione industriale» era ragionevole pensare (e
infatti era la convinzione dei più) che i benefici del progresso tecnico
e della società industriale si sarebbero gradualmente estesi a tutti i
Paesi e a tutti i popoli. Era solo questione di tempo (si diceva): per una sorta
di salutare epidemia l'industrializzazione si sarebbe diffusa per tutto il
mondo, un po' come fa su una superficie liquida o su un foglio di giornale una
goccia d'olio, che si allarga piano piano in tutte le direzioni. Le cose non
sono andate così: lo sviluppo economico non si è propagato a
macchia d'olio e il distacco che alla fine dell'Ottocento separava i Paesi
industrializzati dagli altri, invece di diminuire, è aumentato.
L'illusione che il progresso tecnico o lo sviluppo economico potessero
trasmettersi da un Paese all'altro in modo quasi automatico, per
«contagio» o per semplice «imitazione», ha ceduto
progressivamente il campo al fondato sospetto che il sottosviluppo di gran parte
dell'umanità sia stato appunto ciò che ha permesso al resto
dell'umanità di progredire e di arricchirsi. Forse era effettivamente
questione di tempo, ma nel senso opposto a quello che si intendeva allora: nel
senso, cioè, che lo sviluppo economico era una corsa contro il tempo e
che i Paesi che non hanno avuto l'opportunità di avviare la propria
industrializzazione entro un certo periodo (diciamo, pressappoco, la prima
guerra mondiale) non sono più stati in condizione di
farlo.
Già nella seconda metà dell'Ottocento molti fattori
che avevano favorito l'avvio dell'industrializzazione in Inghilterra e in altri
Paesi dell'Occidente si stavano trasformando in ostacoli per lo sviluppo dei
Paesi non ancora industrializzati. Per esempio, nei Paesi che per primi erano
arrivati a industrializzarsi, la diminuzione del costo dei trasporti conseguente
all'applicazione della macchina a vapore nelle ferrovie e nella navigazione
aveva favorito lo sviluppo della produzione e dei commerci, stimolato la
concentrazione delle aziende industriali e consentito una più razionale
specializzazione produttiva tra le varie regioni. Nei Paesi non ancora
industrializzati, invece, doveva favorire soltanto una rapida e capillare
penetrazione dei Paesi economicamente più forti, che poi significava
l'attivazione di un devastante flusso di risorse dai Paesi deboli verso i Paesi
forti, per definire il quale non è retorico parlare di
«rapina». La costruzione delle ferrovie nei Paesi industrializzati
aveva fatto cadere sulle aziende meccaniche, siderurgiche e minerarie una
valanga di ricche commesse; ma la costruzione delle ferrovie nei Paesi non
industrializzati non poteva recar alcun beneficio all'economia locale
perché tutte le commesse importanti finivano nelle mani di industrie
straniere. Uno dei fattori che da promotore dello sviluppo si è
trasformato tra Otto e Novecento in un formidabile ostacolo allo sviluppo
è stato proprio il progresso tecnicoscientifico. L'innovazione tecnica,
molla dello sviluppo economico, non poteva più essere abbandonata
all'inventiva dei singoli: era ormai affidata ad una complessa e costosa
organizzazione di ricerca dotata di personale specializzato e di attrezzature
adeguate. I Paesi che non disponevano di una tale organizzazione o che non erano
in grado di costruirsela erano destinati a perdere tutti i vantaggi economici
derivanti dalla priorità delle scoperte. Lo stesso accadeva sul versante
della manodopera: l'analfabetismo, che non era stato in alcun modo un ostacolo
per i Paesi che, come l'Inghilterra o la Francia, avevano iniziato il processo
di industrializzazione entro i primi decenni dell'Ottocento, lo divenne per
quelli che avviarono la propria industrializzazione più tardi.
La
sempre maggiore complessità delle tecniche comportava infine costi sempre
più elevati per l'avvio del processo di industrializzazione. Non è
facile confrontare questi costi in Paesi e in tempi diversi. Ma se per ogni
Paese e per ogni momento mettiamo in rapporto i capitali investiti
nell'industria con i salari operai (dividiamo cioè l'ammontare dei
capitali per l'ammontare dei salari), questi rapporti possono essere confrontati
fra loro e possono darci un'idea almeno approssimativa del costo crescente
dell'industrializzazione. Se in Inghilterra tra Sette e Ottocento il capitale
industriale (ossia il valore degli impianti e delle scorte) era appena un terzo
dell'ammontare annuo dei salari, intorno al 1930 nei Paesi industrializzati
dell'Occidente era più del quintuplo, con un aumento superiore a quindici
volte. Ma nella stessa epoca nei Paesi non ancora industrializzati, dato il
più basso livello dei salari rispetto a quelli delle regioni sviluppate,
il rapporto capitale/salari era molto superiore. Non c'è davvero da
stupirsi che i Paesi che hanno iniziato il processo di industrializzazione dopo
quest'epoca abbiano incontrato difficoltà praticamente
insuperabili.
LA COMPOSIZIONE ORGANICA DEL CAPITALE
Come si è visto, il valore delle
macchine e delle materie prime impiegate nella produzione si trasferisce nel
prodotto finito, ma non aumenta: il valore del ferro contenuto in un'automobile
è esattamente lo stesso che aveva prima che l'auto fosse costruita
né può aumentare in alcun modo. Karl Marx ha chiamato
«capitale costante» quella parte del capitale che è costituito
da macchine e materie prime e il cui valore non aumenta (rimane costante) nella
produzione. In ogni prodotto, però, oltre il valore conservato,
c'è un valore nuovo: un'automobile vale di più del ferro e degli
altri materiali che sono serviti a costruirla. Questo valore che si aggiunge al
valore originario del capitale rappresentato dalle macchine, dagli impianti e
dalle materie prime consumate nella produzione è prodotto dal lavoro
dell'uomo. In altre parole, un capitale aumenta solo in virtù di quella
sua parte che è servita ad acquistare la forza lavoro, ossia a pagare i
salari. Marx chiama questa parte capitale «variabile» in quanto il suo
valore nella produzione aumenta (varia). La composizione organica del capitale
è il rapporto tra capitale costante e l'insieme del capitale. Se
indichiamo il capitale costante con C e il capitale variabile con V, la
composizione organica del capitale è

Se in un'azienda il capitale costante è di 100 e il
capitale variabile di 50, la composizione organica del capitale
sarà

In un'azienda il cui capitale
costante sia 50 e il capitale variabile sia 100, la composizione organica del
capitale sarà

ossia
sarà la metà della precedente.
La composizione organica del
capitale aumenta con il progresso tecnologico ed è uno dei fattori della
concorrenza e della concentrazione capitalistica. Mentre all'inizio della
Rivoluzione industriale era possibile avviare un'azienda industriale investendo
in macchine e materie prime (capitale costante) l'equivalente di qualche mese di
salario operaio (capitale variabile), oggi, con impianti tecnologicamente
avanzati, la quota di capitale costante è aumentata di parecchie decine o
addirittura di alcune centinaia di volte. L'alta composizione organica del
capitale nell'industria moderna è uno degli ostacoli
all'industrializzazione dei Paesi sottosviluppati.